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MANGIAROTTI, COMMESSE FINO AL 2018, MA CRISI FINANZIARIA

Da Il Piccolo Vietato investire e lavorare in un settore di nicchia, innovativo e ad alto contenuto di tecnologia: servono grandi capitali e forte liquidità (cash flow) costantemente disponibile in cassa, e per le aziende che cercano di farlo in Italia il rischio è il fallimento. Ha rischiato persino il gruppo Fincantieri che ha spalle robuste e un grande organizzazione (oltre che lo Stato come principale azionista) che ha evitato per un soffio di essere tagliata fuori dal mercato e solo dopo la battaglia del suo ad, Giuseppe Bono, è riuscita a far ottenere i “finanziamenti” delle commesse ordinate dai suoi clienti dalla Sace e da Cassa depositi e prestiti. Figurarsi la Mangiarotti che non ha lo Stato alle spalle e che ora, nonostante comesse acquisite nel portafoglio per centinaia e centinaia di milioni, con lavoro assicurato ai 450 dipendenti, altamente professionalizzati, fino al 2018, rischia di rimanere strozzata per i finanziamenti ottenuti dalle banche e di chiudere tra breve. Morte per crisi di liquidità. Una situazione che sta mettendo a rischio il futuro dei lavoratori che ieri a Monfalcone si sono ritrovati in assemblea per parlarne: la dirigenza, conferma il sindacato, ha privilegiato la professionalità garantendo finora (tranne qualche ritardo) regolarmente le buste paga, ma ora tra qualche mese potrebbero scoppiare seri problemi. Non se ne fa una ragione nemmeno il sindacato che grida allo scandalo. «Una situazione paradossale, assurda – sbotta Sergio Drescig, segretario regionale Fim Cisl -. Ne abbiamo viste di tutti i colori in questa crisi, ma una situazione simile mai». Tutta colpa dell’alto costo delle commesse: ogni volta che c’è un ordine bisogna avere decine di milioni per acquistare la materia prima e per partire servono le fideiussioni bancarie per fare le lavorazioni e ottenere poi i soldi dai clienti. Non fai in tempo a finire la commessa che sei già dissanguato, a meno di sostegni e spalle robuste che in Italia quasi nessuna azienda ha. «È un gioiello della tecnologia la Mangiarotti, uno stabilimento bellissimo e innovativo – insiste il segretario della Fim-Cisl – ma anche un’azienda che ha investito 120 milioni negli ultimi 4 anni, ha assunto qualcosa come 260-270 lavoratori, ha ordini acquisiti fino al 2018 ed ora, pure essendo la prima o la seconda nel mondo nel settore delle costruzioni di centrali nucleari e oli&gas, rischia di fallire per debiti». Finora le banche hanno garantito una sessantina di milioni, la Regione è intervenuta con Friulia sul capitale sociale per il 30% (10 milioni), nell’aprile scorso Mediocredito ha portato altri 50 milioni in dote. Ma non basta. «Su una commessa da 500 milioni servono almeno 40 milioni liquidi per partire – spiega Drescig – più le fideiussioni bancarie per iniziare le lavorazioni e ottenere poi i soldi dai clienti». L’azienda ha presentato il 25 giugno una richiesta di proroga di tre anni del mutuo alle banche con un piano di sviluppo molto favorevole, ma gli istituti finanziari non hanno ancora risposto e se non ci sarà l’ok con un’ulteriore iniezione finanziaria la Mangiarotti rischia di chiudere. «L’appuntamento è per fine settembre – aggiunge il segretario – allora si saprà qualcosa sul futuro dell’azienda». Nel frattempo la Mangiarotti sta smobilitando l’azienda di Pannellia, vicino a Udine, pèer trasferire tutto a Monfalcone, ma rischia di essere un salto nel buio. «La politica deve farsi carico della situazione – conclude Drescig – in Fvg non c’è nessuno che investe nell’innovazione, siamo la regione peggiore del Nord e tra le ultime in Italia».