Il modello Mirafiori, di Giovanni Fania
Editoriale del Segretario Generale Cisl Fvg
Il voto dei giorni scorsi a Mirafiori impone una serie di riflessioni “a caldo”, non fosse altro per il fatto che per la prima volta nello stabilimento torinese si vince un referendum su materie di flessibilità; e questo nonostante l’estrema politicizzazione e il clima di forte tensione alla vigilia della consultazione. La vittoria del sì rappresenta a dir poco una svolta storica del e per il nostro paese, il cui futuro – lo dimostra l’intera vicenda – sembra più affidato al senso di responsabilità dei lavoratori che all’azione concreta delle classi dirigenti della politica italiana.
Veniamo, infatti, alla prima considerazione. Tra le minacce e le provocazioni inutili di taluni, operai e impiegati del Lingotto hanno con buon senso e consapevolezza anteposto il lavoro all’incertezza, dando un segnale positivo a tutto il sistema-paese, ancora nelle secche della crisi.
Il voto maggioritario di operai e impiegati rappresenta un fatto inequivocabile e importante, ovvero la volontà di chi sostiene il paese con il proprio lavoro, il sacrificio e la dedizione quotidiani di andare avanti, di guardare oltre al provincialismo con l’intenzione di costruire qualcosa di nuovo e accettare la sfida della globalizzazione sempre più spinta.
Per contro, assistiamo alla latitanza della politica, ripiegata su stessa, inefficiente, attanagliata da contrapposizioni improduttive, oltre a ruotare attorno a vicende personalistiche di dubbio gusto, che di fatto intaccano l’immagine del paese e la sua credibilità sul fronte internazionale, anche a scapito degli investimenti esteri.
In un momento in cui la politica dovrebbe occuparsi delle vere emergenze del paese – lavoro e condizioni sociali –, ci troviamo dinanzi all’inefficienza di chi ci governa, complice anche un’opposizione poco efficace, che non stimola il dibattito sulle necessarie riforme strutturali. Riforme indispensabili alla competitività, che non passa solo per il costo del lavoro, tutto sommato marginale sull’ammontare del prodotto finale, ma piuttosto su altre variabili, come per esempio, le infrastrutture, la logistica, una burocrazia snella, politiche industriali, un carico fiscale equo per lavoratori e imprese. Sono queste le vere questioni cui mettere mano, compresa la conseguente capacità di attrarre investimenti.
Negli ultimi cinque anni – va sottolineato con forza – l’Italia non ha attratto alcun investimento estero e negli ultimi 20 anni solo il 30% di quelli che la Germania ha portato a casa: non deve stupire, dunque, la ripresa dell’industria tedesca, dove peraltro gli operai sono pagati molto meglio che da noi.
E questo ci porta alla seconda considerazione. Quello firmato a Mirafiori rappresenta un ottimo accordo, che non lede i veri diritti fondamentali dei lavoratori, come qualcuno ha voluto in maniera ideologica e fuorviante far credere, ma pone al centro la questione prioritaria del salario degli operai italiani, tra i meno retribuiti in Europa. Tuttavia, a chi avesse la memoria corta, va ricordato che l’accordo per il rilancio di Mirafiori non rappresenta un caso isolato, vero è che i contenuti sono in linea con molte intese sindacali sottoscritte unitariamente dai sindacati, compresa la Fiom, per difendere l’occupazione e favorire rilancio e produttività. Come a dire che i temi dell’organizzazione del lavoro flessibile, della regolamentazione della prestazione lavorativa e l’adattamento della contrattazione aziendale non sono assolutamente nuovi per il sindacato – tutto – di questo paese.
Di più. La vicenda di Torino pone al centro una questione cara da anni alla Cisl, ovvero quella del modello partecipativo come cardine delle relazioni industriali. Un modello basato sulla corresponsabilità dei lavoratori all’interno della propria azienda, che si pone in antitesi al modello antagonista e arcaico ancora valido per qualcuno, ma dannoso nel quadro delle moderne relazioni, tese alla condivisione delle scelte piuttosto che allo scontro. È, dunque, da Torino che si deve ripartire per sviluppare un nuovo quadro di relazioni industriali mirate alle sfide che ci attendono. Il problema vero si conferma nella globalizzazione e non nei contenuti di un accordo incentrato sulla negoziazione. Il nemico non è Marchionne; è semmai l’assenza di regole globali su cui il sindacato compattamente e a livello mondiale deve intervenire, per ristabilire equilibri e giustizia. Di fronte a questa sfida non servono a nulla la demagogia e i diktat di taluni, ma la capacità comune e la responsabilità di trovare soluzioni e strumenti – anche di flessibilità (purché regolamentata!) – per sostenere la nuova competizione, senza danneggiare i lavoratori.
Va da sé che per guardare avanti e dare continuità a un processo di cambiamento avviato con il voto referendario occorre riprendere il dialogo, abbassando i toni della polemica, nell’interesse del paese e dei lavoratori. In tal senso sarebbe sicuramente utile riprendere il confronto sulla rappresentanza, ripartendo dalla piattaforma del 2008, senza cedere alle pressioni di chi vorrebbe un intervento legislativo o una politica a favore dei veti.
Infine, un’utima considerazione va fatta per casa nostra, mettendoci in guardia nei confronti di chi, strumentalizzando la vicenda di Mirafiori, parla di «modello Fiat» per le imprese regionali. In Friuli Venezia Giulia non esistono case automobilistiche dove esportare il modello Mirafiori: urge però affrontare in chiave nuova anche da noi il cambiamento che avanza, a sostegno del tessuto produttivo manifatturiero. Lo strumento resta quello del tavolo di concertazione, un tavolo sulla produttività cui tutti prendano parte con buona volontà e senza voler imporre diktat preconcetti.