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Carità e verità nel mondo del lavoro: la sfida per il terzo millennio – Introduzione al convegno di Trieste, 19 maggio 2010

Giovanni Fania
Segretario Generale USR CISL FVG

L’occasione di questo convegno per approfondire e discutere la recente enciclica del Santo Padre, Caritas in veritate, capita proprio in un momento a dir poco emblematico dal punto di vista sociale ed economico. Ed è a questa realtà, davvero planetaria, che non possiamo distogliere lo sguardo, pur cercando di cogliere in tutta la loro portata prospettica le tematiche affrontate dal documento di Benedetto XVI.
In molti hanno già osservato come questa sia la prima “enciclica della globalizzazione”.
Attendevamo da tempo, infatti, un superamento della sfera delle ragioni economiche, per coniugarla, anche dal punto di vista dottrinario, con i doveri delle responsabilità sociali.
Non a caso, fenomeni come quello della delocalizzazione delle produzioni manifatturiere e non solo (si pensi ai call center in lingua inglese ormai largamente ubicati in India) nascono dalle quasi infinite possibilità tecniche che si sono aperte con il progresso nel campo dei trasporti e della comunicazione.
Tuttavia, non tutto ciò che è possibile è anche lecito. Molti Paesi sono oggi sotto attacco concentrico da parte delle grandi concentrazioni di capitale speculativo, che vogliono per sé i guadagni e i dividendi dell’economia mondiale, lasciando a chi effettivamente produce, cioè i lavoratori, solamente le briciole della ricchezza.
I teorici del neoliberismo hanno clamorosamente fallito con le loro ricette, sia nel caso di stati arretrati ed incerti nella costruzione di un quadro di regole interne in cui il mercato doveva collocarsi, sia (ed oggi lo vediamo) nel caso di paesi più progrediti ed attrezzati, a cui hanno richiesto ancora una volta lo smantellamento del sistema di stato sociale. Un welfare state che è costato ai lavoratori oltre cent’anni di lotte e sacrifici.
Lavoratori che però oggi sono anche risparmiatori, e in quanto tali in potenziale conflitto di interessi con loro stessi. Da dove vengono, infatti, grosse quote del denaro amministrato dai Fondi di investimento e dai Fondi pensione internazionali, se non dagli stessi lavoratori, che magari vedono poi chiudere la propria fabbrica perché “scarsamente competitiva”?
Gli interrogativi sono molti e a tutti non può che esser data una risposta che parta dall’etica. Per rispondere, infatti, solo all’ultimo interrogativo, si potrebbe argomentare che la “competitività nella produttività” può essere moralmente ed economicamente lecita e sostenibile, mentre una semplice ricerca di competitività sfruttando il divario nel costo del lavoro e nei livelli di sicurezza non solo è moralmente inaccettabile, ma è anche economicamente insostenibile, in quanto scarica ingenti costi di sistema sulla collettività, privilegiando esclusivamente singoli attori economici.
Il Santo Padre non si sottrae a queste domande e, sulla scorta di Paolo VI (Cfr. in primo luogo l’enciclica Populorum progressio, che venne scritta in particolare sotto la potente impressione che Papa Montini ricavò dai viaggi apostolici in Africa), condanna senza mezzi termini “la riduzione delle reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi competitivi nel mercato globale”, che costituisce un “grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i diritti fondamentali dell’uomo e per la solidarietà attuata nelle tradizionali forme dello Stato sociale”. Benedetto XVI si spinge a denunciare esplicitamente “i tagli alla spesa sociale, spesso anche promossi dalle Istituzioni finanziarie internazionali, [che] possono lasciare i cittadini impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi”, nonché le “maggiori difficoltà” che le organizzazioni sindacali incontrano nello “svolgere il loro compito di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, anche per il fatto che i Governi, per ragioni di utilità economica, limitano spesso le libertà sindacali o la capacità negoziale dei sindacati stessi” (Caritas in veritate, 25). La debolezza della donna e dell’uomo umiliati da condizioni di lavoro endemicamente precarie, prosegue il Papa, creano “forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti nell’esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio. Conseguenza di ciò è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale” (26). Sono queste le frontiere antropologiche verso cui le forze sociali, sindacali e datoriali, devono indirizzare un rinnovato impegno.
In un contesto come quello attuale, richiamare il primo capitale da salvaguardare e valorizzare, e cioè l’uomo, la persona nella sua integrità, non è un’idea peregrina o peggio inutile. La proposta della Dottrina sociale della Chiesa, secondo cui “l’uomo è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale”, deve trovare maggiore ascolto presso i governi, i centri decisionali e tutti coloro che hanno compiti di rappresentanza collettiva.
Questa sollecitudine a salvaguardare la risorsa uomo di fronte al dilagare della crisi non è rimasta circoscritta all’ambito cattolico. Lo stesso presidente Obama si è giocato gran parte della propria credibilità sulla riforma del sistema sanitario americano, nell’ottica di allargare la platea dei soggetti fruitori della protezione sociale proprio in una fase di burrascosa crisi finanziaria. “La dignità della persona e le esigenze della giustizia” – richiama la stessa enciclica – rendono “moralmente inaccettabili le differenze di ricchezza” e prioritario il perseguimento di un lavoro accessibile e dignitoso per tutti, indispensabile anche per mantenere quel “patrimonio sociale” fatto da rispetto delle regole e convivenza civile (32).
Il Papa mette poi in risalto “il nesso diretto tra povertà e disoccupazione”, provocato dalla violazione della dignità del lavoro umano, sia in termini di limitazione delle possibilità lavorative, sia di riduzione al “diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia” (63). Il concetto di lavoro “decente”, che Benedetto XVI ha mutuato dal messaggio di Giovanni Paolo II in occasione del 1° maggio del 2000, è in questo senso fondamentale. Significa “un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la propria voce; un lavoro che metta realmente al pari e non consideri sola merce gli immigrati che “recano un contributo prezioso allo sviluppo economico del Paese”; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa”.
Mi scuserete la lunga citazione. Ma si tratta di un “ordine del giorno” sempre attuale, che la Chiesa richiama con determinazione ed insistenza sin da quando Leone XIII, con la Rerum novarum del 1893, fondava il diritto alla “giusta mercede” su un universale senso di solidarietà cristiana che non ha perduto, neppure oggi, un carattere di urgenza e contingenza crescente. La missione della Chiesa, infatti, è quella di proclamare la “verità” in nome di Cristo (che è “carità” incarnata e rivelata dalla Resurrezione) anche negli ambiti sociali ed economici, in cui i cattolici devono entrare e da cui non devono rimanere estranei. Il Papa propone così il superamento della logica dei “due tempi”, che vede prima la produzione (affidata solo ad alcuni soggetti che “dominano” il mercato) e solo poi la redistribuzione della ricchezza; una logica sbagliata, perché quando giunge alla redistribuzione il più delle volte arriva tardi, alimentando il divario inaccettabile tra ricchi e poveri, tra sfruttato e fruttatore, tra chi ha fame e chi spreca. Di fronte alle troppe offese alla dignità delle persone, ogni redistribuzione è infatti tardiva perché la dignità perduta non può essere compensata.
Per questo, il momento di riflessione e confronto di oggi è tanto importante e denso di richiami ad un presente che deve vedere la collaborazione e la buona volontà dei soggetti sociali a riaffermare con decisione i valori del lavoro, della solidarietà e della verità.
Quell’amore (caritas) nella verità, in grado di trascinare il nostro mondo fuori dalle secche degli individualismi e della perdita di riferimenti.
Auguro a tutti un buon lavoro e passo volentieri la parola a monsignor Crepaldi, che terrà la relazione principale del convegno.