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Demagogia e sprechi

di Giovanni Fania

Parto dalla Finanziaria nazionale per accendere una luce sulla questione della spesa pubblica e, in particolare, dei costi della politica, anche regionale. Lo faccio in un momento in cui il governo, con una manovra da 24,9 miliardi, “trascura” quella che secondo la Cisl resta una partita strategica da affrontare, specialmente a fronte dei sacrifici richiesti ai cittadini e ancora ai dipendenti pubblici. Non entro, invece, nel merito delle altre poste previste da un decreto che riteniamo assolutamente da migliorare nell’ottica di una maggiore equità e di un maggiore rigore.
Per questo, anziché scioperare, preferiamo restare ai tavoli e confrontarci responsabilmente con il governo, evitando che il costo della crisi ricada esclusivamente sui lavoratori e i pensionati, attraverso anche un ridimensionamento dello Stato sociale. 
Continua a esserci l’errata convinzione da parte di chi ci amministra che nel gran calderone della spesa pubblica i pesi della politica e del sociale si equivalgano o, ancor peggio, che per far funzionare la poderosa macchina pubblica sia necessario tagliare piuttosto che sulla prima voce, sulla seconda. Lievi ritoccate, dunque, su auto blu, stipendi e indennità di alti dirigenti, rappresentanti e assetti istituzionali; colpi di forbice, se non di accetta ben assestati, invece, su scuola, ospedali, servizi; come a dire su quell’esercito di pubblici dipendenti che costituirebbero per i nostri governanti il vero costo sociale da tagliare, il freno tirato del paese: assistenti, infermieri, insegnanti, maestri, solo per citarne alcuni. Chi ci rappresenta al governo si accontenta dei proclami contro gli sprechi e delle minime decurtazioni dei compensi per dare il “buon esempio”, dimenticando che sono, invece, proprio quei dipendenti pubblici maltrattati a mandare spesso e volentieri avanti il nostro paese, le famiglie, la sanità, la scuola. Ma al di là di ogni demagogia, resta il problema vero di una spesa politica non più sostenibile, che è così lievitata, da avere reso inefficiente l’intero sistema che, al contrario, richiede un alto grado di flessibilità, tanto più ora, in un periodo di crisi strutturale. Ci saremmo pertanto attesi una manovra più coraggiosa sotto questo profilo: più coraggiosa, ma anche improntata a un più stretto rigore, intransigente vero la moltiplicazione dei luoghi della res publica, verso i costi e i numeri di una politica improduttiva, paralizzante, che assorbe tante risorse, senza riversarne in occasioni di sviluppo. Negli ultimi 20 anni la storia italiana ha risposto alle sfide di modernizzazione del paese con la proliferazione di livelli ed enti istituzionali, con il paradosso che, prima delle elezioni si chiede il voto per l’abolizione delle Provincie e subito dopo, con legge ordinaria, se ne costituiscono di nuove e sempre più piccole, insopprimibili se non per via costituzionale! E lo stesso accade per le liberalizzazioni o privatizzazioni, i consorzi, che sono più di 7.500 e danno a campare a oltre 25.000 amministratori tutti nominati dalla politica e provenienti dalla stessa “professione”. Non stupisce che un giovane laureato, magari con lode e master, soccomba di fronte a tanta esperienza!
Declinando il discorso a livello regionale – dove peraltro alcune cose, grazie alla buona gestione della leva della specialità, vanno sufficientemente bene (sanità, formazione, assistenza ecc.) –, la “malattia” della politica non ci vede immuni: in Friuli-Venezia Giulia sul costoso carrozzone pubblico sono saliti in 3.418, politici che sono a paga o a gettone, finanziati con le nostre tasse. Si stima che un Comune per essere autosufficiente debba avere più di 15 mila abitanti: nella nostra regione, su 218 amministrazioni solo 9 sono quelle che superano tale soglia; 17 Comuni hanno un numero di cittadini che non supera le 500 unità. Eppure tutti hanno un minimo di 12 consiglieri eletti per un totale regionale di 3.100 persone – di cui 575 anche assessori e 410 sindaci o vicesindaci – e 125 assessori esterni. E a questi vanno aggiunti, come se non bastasse, i 65 rappresentanti della Regione e i 128 delle Province, tra consiglieri ed assessori. Ben si capisce quali costi debba sopportare anche una regione piccola come la nostra. Occorre un ridimensionamento dell’apparato pubblico, una riforma istituzionale seria e coraggiosa, che semplifichi i livelli in una logica di razionalizzazione, partendo dal ruolo delle Province. Non è dal blocco dei contratti del pubblico impiego previsto dalla manovra che si risparmierà, ma su un ripensamento complessivo degli assetti sulla base dei parametri dell’utilità, dell’efficienza reale e dei servizi resi al cittadino. Come a Roma anche a Trieste si devono affrontare i nodi della crisi aggravati da un minor gettito di compartecipazione; anche qui bisogna stanare gli evasori affinché il gettito recuperato sostenga meglio le entrate della Regione e dei Comuni; anche a Trieste il blocco dei contratti del pubblico impiego produrrà una minore distribuzione della ricchezza (40 milioni) e un minor gettito dei decimali che ci spettano (12 milioni); anche a Trieste bisogna aprire quei tavoli per la crisi, il fisco, la riforma della pubblica amministrazione e i costi della politica perché Trieste è Sparta.