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PRODUTTIVITA’, PERCHE’ IL NO DELLA CGIL NON REGGE

L’accordo del 28 giugno 2011 era stato accolto da tutti con favore sia perché firmato da tutti i sindacati dopo anni di divisioni, sia perché conteneva impegni utili a razionalizzare la nostra struttura contrattuale.
L’intesa sulla produttività firmata il 21 novembre, è per molti versi una continuazione e un perfezionamento dell’accordo del 2011; anche per questo si poteva sperare in una conclusione unitaria. La mancata firma della Cgil è un fatto negativo perché indebolisce il valore dell’accordo e perché rischia di isolare la stessa Cgil. Per questo i maggiori partiti, a cominciare dal Pd, e il governo hanno sperato e auspicano ancora che si possa rimediare.
Occorre guardare al merito dell’accordo, senza farsi influenzare dalle “turbative” del momento e dall’incipiente clima elettorale.
Nel merito l’accordo conferma in larga parte le indicazioni del 2011 sulla struttura contrattuale: cioè la funzione della contrattazione nazionale di garantire la certezza dei trattamenti per la generalità dei lavoratori. È il compito della contrattazione di 2° livello di stimolare la produttività con un migliore uso dei fattori di produzione e dell’organizzazione del lavoro. Questa funzione del 2° livello è rafforzata; e per questo le parti chiedono di rendere strutturali gli incentivi alle retribuzioni di produttività. Ma si tratta di un decentramento contrattuale “controllato” e autorizzato dal livello nazionale, come è previsto nell’accordo del 2011 e nelle migliori pratiche europee (non come vorrebbe Marchionne).
Questo vale anche per la retribuzione. L’accordo stabilisce che una quota degli aumenti derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata a elementi retributivi collegati a incrementi di produttività e redditività definiti al 2° livello.
Questa è la novità più evidente dell’accordo. Ma anche questa novità è “controllata” dal livello nazionale, sia perché può essere attivata solo ad iniziativa dei contraenti nazionali sia perché se la contrattazione di 2° livello non decide o decide solo in parte, la quota decentrata non si perde ma resta parte integrante del trattamento economico comune a tutti i lavoratori coperti dal contratto nazionale.
Questa clausola rappresenta una garanzia importante per i lavoratori. Non si può dire che questi “perdono” una parte di retribuzione, come sostiene la Cgil e che quindi diminuisce la massa salariale. È vero invece che una parte del salario è distribuito non in modo automatico per tutti, ma è legato alle performances delle aziende e dei lavoratori. Il che rende la dinamica retributiva più funzionale all’aumento della produttività e “premiale” per i lavoratori. Oltretutto il salario aziendale che i lavoratori ricevono vale di più perché è detassato. D’altra parte la clausola di garanzia incentiva le imprese a concordare sistemi retributivi flessibili, perché se non lo fanno non per questo “risparmiano” ma devono comunque erogare la stessa quota retributiva, ma nella maniera fissa tradizionale.
Questo meccanismo si può forse chiarire meglio; ma non si può negarne l’utilità per rendere più dinamico il nostro sistema di relazioni industriali. Del resto è quello che fanno altri paesi, come la Germania che è più efficiente di noi e non certo “antisindacale”.
In tema di rappresentanza sindacale, le parti si impegnano a dare seguito all’accordo del 2011 finora inattuato.
Dare seguito alle regole sulla misura della rappresentatività permetterebbe di superare alcune ragioni di conflitto che pesano sul sistema contrattuale specie nel settore metalmeccanico e che sono arrivate in giudizio, a seguito di ricorsi della Fiom, contro la Fiat. La rispondenza della Fiom ai requisiti previsti dall’accordo del 28.6.2011 richiamato dal nuovo protocollo (il 5% fra iscritti e votanti) comporta il riconoscimento di questa organizzazione e darebbe titolo alla sua partecipazione a pieno titolo alla contrattazione collettiva e ai diritti sindacali.
Naturalmente questo non risolve i problemi di merito riguardanti la contrattazione nazionale, ove la Fiom si è finora dissociata dai rinnovi degli altri sindacati metalmeccanici.
Né risolverebbe la questione Fiat che riguarda la presenza della Fiom in azienda.
La soluzione di tale questione dipende, oltre che dalla volontà della Fiat, dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori che subordina la titolarità dei diritti sindacali in azienda alla stipulazione di contratti collettivi ivi applicabili (condizione che non si verifica per la Fiom).
Qui serve una modifica legislativa dell’articolo 19 che tenga conto dell’effettiva rappresentatività delle organizzazioni sindacali. Disegni di legge in tal senso sono presenti in parlamento; e d’altra parte l’articolo 19 è stato inviato alla Corte costituzionale perché ne verifichi la (dubbia) costituzionalità.
Si tratta di questioni importanti ma non trattabili al tavolo che ha elaborato l’intesa.
Sarebbe un segnale utile invece che la Federmeccanica aprisse un dialogo con la Fiom per verificarne le disponibilità a discutere senza pregiudizi (da ambo le parti). Altrettanto utile sarebbe un impegno del governo ad affrontare il tema della modifica legislativa dell’articolo 19, per cui esistono proposte in parlamento.
Un’altra parte critica dell’intesa riguarda la modificabilità delle norme di legge su mansioni, controlli a distanza e orario. Anche qui sta alle parti sociali concordare le forme di una flessibilità negoziale che adatti quelle norme alle nuove esigenze produttive (flessibilità delle mansioni non è uguale a dimensionamento) e alle nuove tecnologie (esempio i controlli sul lavoro), senza ledere i diritti fondamentali dei lavoratori come le parti hanno fatto in passato su altre norme di legge. Inoltre si tratta di interventi dei contratti nazionali non dei contratti di prossimità, e su temi definiti, non senza limiti come quelli previsti dal controverso articolo 8 della legge 148/ 2011.

Tiziano Treu